A quell’
orizzonte di mare
di terra
di pietra
foresta
di lago
di monte Calvo
di gemma di mandorlo
di bosco in autunno
d’estate che canta cicale
d’inverno
di Santi
di cielo
di pini d’Aleppo
Non so perché il pensiero del Gargano me lo porta via un vento. Non so da dove viene questo vento, né dove va.
Arriva, un giorno, fra ottobre e novembre, da lontano, e scende dentro i miei ricordi. Li scompiglia; rovescia e vuota i cassetti, rovista a lungo; poi riparte.
Quel che rimane appare come dopo un sogno: è una serie di foto, come queste di Erminia De Luca. Grandangoli che sembrano ribaltare la prospettiva. Getti materici di luci e ombre che si addensano intorno alle figure. Linee di fuga che tagliano il piano “infinito” di un orizzonte. Spazi grigi e grumi cromatici. Squarci nel fondo oscuro di un fotogramma.
C’è una storia in questi testi? Le visioni non coincidono? A poco a poco, il ricordo perde la sua spinta mentale, si ferma alle soglie visibili di uno schermo metafisico che mi restituisce sapori e odori, fra petraie desertiche e distese d’acque, intrecci d’alberi e doline silenziose, correnti d’aria e pascoli solitari, tratturi persi e antichi uliveti.
Laggiù, ogni momento, anche se mai vissuto, appare vero, autentico, di fronte alla grave responsabilità dell’esistenza. Sembra quasi di non percepire presenza umana. Ogni traccia del nostro genere è volatilizzata. Sola una macchina, col suo obiettivo piantato in vece di un occhio, si aggira per testimoniare l’assenza, e asserire che non tutto è perduto.
Nel recuperare così i miei ricordi, in queste foto mi coglie l’improvvisa nostalgia di una bellezza creaturale, originaria, del mondo. Un “prima” che disancora lo sguardo dalla topografia ordinaria dei luoghi che conosco, e lo manda in giro sulla terra, lo affida a un vento: ecco il Gargano, sussurra, colto dalla feritoia temporale di un momento, pronto a farsi docile patria di un’ombra che ritorna, e cerca nella sua “anima” una forma suprema di leggerezza.