Dipende da te – di Elio Grazioli

Erminia, cosa hai fatto?

Cos’ha fatto Erminia?

 

Con grande semplicità ha fatto un’operazione complessa, per chi vorrà godere anche di questa complessità. Rileggendo Pinocchio, ha estrapolato alcuni passi e li ha illustrati. Come tutti, si dirà, ma con una determinazione più evidente, i passi che ha selezionato raccontano in realtà una storia particolare all’interno di quella di Pinocchio. Qui Pinocchio è, almeno a me pare, il giovane che imbocca la strada per divenire artista. Erminia lo dice in maniera non troppo esplicita, piuttosto mista, perché bisogna essere decisi ma discreti; sono infatti questioni delicate nella posizione di chi vuole ribadire – approfittando dell’affettato moralismo di Pinocchio – che artisti non si può diventare senza diventare uomini-donne. Il nocciolo duro sta qui. Le facilità, le lusinghe, le scappatoie non funzionano: “Le bugie si riconoscono subito”, vengono a galla, la verità ritorna. D’altro canto, in un altro senso, non si sfugge al proprio destino, la strada è quella segnata: il racconto di Erminia finisce con il monito “Dipende da te”.

 

L’artista è nella stessa condizione del burattino, essere sospeso, ibrido, non puro oggetto e non ancora soggetto compiuto. Il suo stesso mondo è tutto composto di esseri ibridi: a parte il padre e la fatina, ci sono solo animali in questa storia, animali da fiaba, parlanti, che stanno al posto degli uomini – invece che tendere a diventarlo.

 

Il tema che Erminia evidenzia in modo particolare in questa storia di iniziazione è allora giustamente quello della solitudine. Quella dell’artista è infatti una condizione singolare di solitudine: profonda, radicata, quasi endemica. Per fortuna ci sono gli amici: la storia, la vita, in fondo è il racconto di incontri, in cui l’amicizia, i vari tipi di amicizia, senza rivendicazione di un senso unico e ostentato di amicizia, trionfa, risolve e determina. La penultima immagine di Erminia rappresenta un bacio di amicizia.

 

Così Erminia ha letto Pinocchio. Chiaro e semplice, toccante e vero. Ma la singolarità della sua operazione è la sua ambizione di voler essere artistica, non puramente illustrativa (dunque, naturalmente, la storia di Pinocchio è anche la storia di Pinocchio, se mi si permette il gioco, ovvero del divenire opera, voler divenire arte). Non è solo un’ambizione, è l’operazione stessa, quella che fa dell’illustrazione il medium, la assume cioè come forma, trasformandola proprio secondo i suoi caratteri, reinterpretati secondo la storia. La storia di Pinocchio è dunque una storia di ibridi, di divenire altro (umano-artista), così come l’illustrazione è una tecnica ibrida, di divenire arte.

 

Erminia ha lavorato allora sulle componenti dell’illustrazione, sia il suo rapporto con il testo, sia la sua tecnica. Per questo i brani estrapolati dal libro sono elaborati graficamente, in modo da diventare a loro volta una sorta di “immagini”. Quanto alle immagini, naturalmente la parte creativa centrale per Erminia, che è artista visiva, la loro particolarità evidente è di essere un misto di fotografia e disegno, una tecnica a sua volta ibrida. La fotografia sta per il reale, il paesaggio, lo sfondo, l’ambientazione, e il disegno la finzione, la fiaba, i personaggi, il primo piano, il racconto? Forse, anche, ma quel che vale è il loro rapporto, come l’uno si innesti nell’altro, come è resa la solitudine, come l’amicizia.

 

Il finale è chiaro nell’ultima immagine: ciò che era disegno è diventato fotografia, ciò che era fotografia è ora disegno; il burattino, preso per mano dalla fatina, in dialogo con lei, sta per divenire bambino: ora dipende da lui.

Oltre il paesaggio – di Salvatore Ritrovato

Non so perché il pensiero del Gargano me lo porta via un vento. Non so da dove viene questo vento, né dove va.

 

Arriva, un giorno, fra ottobre e novembre, da lontano, e scende dentro i miei ricordi. Li scompiglia; rovescia e vuota i cassetti, rovista a lungo; poi riparte.

 

Quel che rimane appare come dopo un sogno: è una serie di foto, come queste di Erminia De Luca. Grandangoli che sembrano ribaltare la prospettiva. Getti materici di luci e ombre che si addensano intorno alle figure. Linee di fuga che tagliano il piano “infinito” di un orizzonte. Spazi grigi e grumi cromatici. Squarci nel fondo oscuro di un fotogramma.

 

C’è una storia in questi testi? Le visioni non coincidono? A poco a poco, il ricordo perde la sua spinta mentale, si ferma alle soglie visibili di uno schermo metafisico che mi restituisce sapori e odori, fra petraie desertiche e distese d’acque, intrecci d’alberi e doline silenziose, correnti d’aria e pascoli solitari, tratturi persi e antichi uliveti.

 

Laggiù, ogni momento, anche se mai vissuto, appare vero, autentico, di fronte alla grave responsabilità dell’esistenza. Sembra quasi di non percepire presenza umana. Ogni traccia del nostro genere è volatilizzata. Sola una macchina, col suo obiettivo piantato in vece di un occhio, si aggira per testimoniare l’assenza, e asserire che non tutto è perduto.

 

Nel recuperare così i miei ricordi, in queste foto mi coglie l’improvvisa nostalgia di una bellezza creaturale, originaria, del mondo. Un “prima” che disancora lo sguardo dalla topografia ordinaria dei luoghi che conosco, e lo manda in giro sulla terra, lo affida a un vento: ecco il Gargano, sussurra, colto dalla feritoia temporale di un momento, pronto a farsi docile patria di un’ombra che ritorna, e cerca nella sua “anima” una forma suprema di leggerezza.

Venature della trasparenza, Su alcune fotografie di Erminia De Luca – di Antonio Prete

I cieli sono stati sempre una sfida per il linguaggio della poesia e della pittura. Perché allo stesso tempo essi appartengono al paesaggio che sovrastano ma sono, proprio perché sovrastanti, appunto al di sopra, non solo visivamente ma per così dire metafisicamente. Si illuminano della luce del giorno o della luce lunare oppure si riempiono di stelle nelle notti illuni, e tuttavia portano con sé l’idea di un’ulteriore inafferrabile profondità, nientemeno connessa con quello sfondamento del visibile e del conoscibile che diciamo infinito. Tempo e spazio attraversati fino alla loro estrema dilatazione, fino alla loro stessa dissoluzione. Sono, i cieli,  l’oltre dell’orizzonte, l’al di là delle nuvole, l’impossibile della visiva percezione. Ma prendono forma e colore, si ricompongono con i profili dei monti, si fanno di pietra sopra i deserti, di platino nelle albe, di fuoco nei tramonti, si lasciano afferrare dai rami degli alberi, piombano sui tetti e si specchiano nelle acque, si lasciano attraversare da uccelli, da nubi, da aerei.  Vivono nella luce e nell’ombra del tempo che scorre, del nostro tempo, ma sono figura di un tempo altro, oltretempo immobile e intransitabile. E’ la loro trasparenza che è la  vera sfida di ogni rappresentazione. Le fotografie di Erminia De Luca  accettano questa sfida.  Perché cercano di afferrare, in quella trasparenza, le venature, le commistioni con la materia che abita i cieli – materia d’aria e di nuvole- e attraverso questo farsi e disfarsi di ombre e di luci, di oscuro e di luminoso, le immagini impresse con l’inchiostro cercano di mostrare una sostanza che avvicina i cieli ai corpi, a tutti i corpi, anche a quelli umani.  Fotografia e radiografia, superficie e nascondimento si avvicinano. E le immagini allora  possono fluttuare verso quel regno delle cose imprendibili e fuggitive di cui il cielo è  figura suprema, col suo tempo accordato al movimento delle stelle.

 

Gli alberi dialogano, si diceva, col cielo. C’è un dialogo tra il cielo e l’albero, un dialogo fatto di silenzio e  di vento, di luce e d’ombra, d’aria e d’acqua. Un  dialogo,  dunque, che attiene a principi della materia e alla natura stessa.  “Gli alberi meditano”, diceva Valéry, il poeta filosofo che  ha anche scritto un Dialogo degli alberi. La forma della chioma è tempo fatto forma, spazio, figura, tempo che ha nella radice il suo nascosto fondamento, per così dire il suo pensiero e progetto.  Se la radice sogna la forma, la forma pensa la radice, ha d’essa memoria e percezione, ne è la geometrica e insieme labirintica proiezione, la figurazione esposta al vento, alla pioggia. La rizomatica composizione fotografica di Erminia De Luca sorprende il tempo di  quel  divenire forma, fissa quel tempo nel chiaro del visibile e nell’oscuro dell’invisibile, nel luminoso dell’apparire e nel tenebroso del nascondersi –i due movimenti che sono ritmo proprio della physis–  ed espone quel tempo all’occhio dello spettatore che in quel farsi di figura e di forma trasferisce le proprie immagini : nelle radici che si divincolano, cercano, separano e uniscono, ciascuno può trasferire le forme del proprio sentire,  del proprio immaginare la relazione con sé e con il mondo.

 

Se la filosofia del Novecento, in alcune sue declinazioni, ha  opposto il pensiero rizomatico  al pensiero lineare e progressivo, la ramificazione profonda del desiderio all’ordine compatto della legge, qui, in queste immagini di rizomi  si mostra, con la chiarezza dell’istante che accoglie il divenire, raggelandolo e sfidandolo, l’aspetto per così dire ctonio, materno e terrestre del desiderio. Non si mostra la simbolizzazione della radice, ma la sua quasi spasmodica ricerca di forma,  di campitura spaziale, di figurazione che corteggia il nodo e l’arabesco, pensa il tronco sottraendosi alla sua eleganza, pensa la ramificazione che sostiene la chioma dell’albero rivolgendola verso il basso e spogliandola di fogliame, pensa l’intrico dell’arbusto svolgendolo in filamenti che cercano l’humus, la zolla, la pietra. Il cielo della radice è la terra, il suo caldo ventre.  Le forme  qui raccontano la somiglianza di ogni cosa al nascosto di un corpo : la venatura è quel che unisce i corpi animali e arborei, il radicamento è quel che definisce l’appartenenza alla terra, l’abitare la terra.  Ed espongono anche, queste fotografie, una ricerca del grigio, delle sue variazioni e tonalità, del suo ritmo, e allo stesso tempo, una ricerca dell’ impossibile fissazione del grigio: perché nel grigio è forte di volta in volta la relazione col nero e col bianco, e dunque il rinvio immediato alla luce e all’ombra, fondamento, poi,  di quel che unisce il vedere e l’immaginare. Il dialogo tra il bianco e il nero, sostanza della fotografia, della sua storia, trova qui, nella rappresentazione del rapporto tra il vegetale e la terra, tra l’arboreo e la terra, una sua esplicita via dichiarativa : il bianco è la forma, il nero è l’informe, ma allo stesso tempo il bianco è la costruzione, il nero il fondamento nascosto. E, potremmo dire, ripensando al rapporto tra l’albero e il cielo, il bianco è il corpo osservato nel suo radicamento, il nero è il cielo rovesciato.

 

Il celeste e l’arboreo, il nubiloso e il terrestre, l’alto e il basso, la luce e l’oscurità :

di questa compresenza è fatto il tempo che ogni arte tenta di accogliere e figurare.  E grazie a questa compresenza  -corrispondente forse a quell’ “eterno” e “transitorio” che Baudelaire vedeva come essenza propria della bellezza nella “modernità”- l’arte può sospingersi su quella soglia dove interrogare il tempo, le sue forme, le sue figure, significa sporgersi sul balcone dove si possono osservare non l’infinito né l’eterno, di per sé infigurabili, indicibili, inabitabili, ma le loro umane provvisorie metafore, le loro fuggitive terrestri figurazioni.

Erminia De Luca, Fuori di me – di Elio Grazioli

“Non volevo il bianco”, mi dice Erminia De Luca, rispondendo alla mia domanda sul perché ha stampato su fondo argento. È un’affermazione impegnativa per un fotografo, perché rinunciare al bianco vuol dire avere grossi problemi con la luce, niente meno.

 

Ma le conseguenze di questa scelta drastica sono alquanto importanti, visivamente prima di tutto, ma non solo, come suggerisce l’autrice anche attraverso i titoli delle sue opere.

 

Voleva invece continuare a usare il metallo, ma diversamente da come aveva fatto nelle serie precedenti. In quelle il metallo era intorno all’immagine, in forma di cornici ingombranti, pesanti, che servivano a dare corpo alle immagini. D’altro canto là il bianco era abbondante, soprattutto nello sfondo da cui le immagini sembrano allora uscire come facendosi strada, emergendo dalla luce. Qui invece il metallo diventa il supporto, sostituisce appunto il fondo-sfondo e tutte le parti bianche, ma è un metallo meno fisicamente presente, non pesante, leggero anzi, flessibile, una lastra, una superficie risonante.

 

Quello che ne deriva sono i due effetti principali di questa strana serie di fotografie: il rimando al suono ribadito dai titoli, che arricchisce sensorialmente (piuttosto che fisicamente, dunque) il visivo, e lo strano effetto per cui le immagini sembrano in qualche modo stampate in negativo, mentre in realtà non lo sono. I due effetti sono in realtà legati tra di loro, perché concorrono entrambi a offrirci immagini che hanno uno strano rapporto con la superficie, ne sembrano una “risonanza”, appunto, un’emanazione, una vibrazione, come se nascessero dal movimento della polvere scura depositata sulla lastra e poi fissata.

 

Così potremmo allora dire che questa volta è il fondo a emergere dalle figure, a salire in primo piano, grazie alla sua piattezza, alla sua opacità e al suo colore inconsueto. È per questo che abbiamo talvolta la sensazione che le immagini siano in negativo, perché non riusciamo a situare bene il chiaro e lo scuro, essendo stato eliminato il bianco, e con esso la sfumatura, il rilievo. L’argento è sia il cielo di fondo, sia la terra in primo piano, sia ancora ciò che ne traspare tra le foglie e un po’ ovunque.

 

È infine l’effetto dovuto alla scelta doppiamente giusta della figura dell’albero, degli alberi, figura classica, perfetto equilibrio grafico e visivo, ma anche di metafora e di percezione, chiara e armoniosa, bella, viene da dire, in sé, commovente ma senza sentimentalismi, paesaggio e figura antropomorfa insieme, natura e cultura inseparabili, ormai, per noi, capace per questo di tenere tutto insieme. Metafora tanto potente e“naturale” che Platone non esitò a dire che l’uomo è un albero al contrario e che in noi scatta automaticamente l’identificazione di fronte a uno qualsiasi. Figura visivamente così efficace che sia il modernismo cultore della bidimensionalità che il postmodernismo cultore del rizoma la utilizzano e la sua ricchezza di possibilità è lungi dall’essere mai esaurita. Erminia De Luca, da parte sua, non sottolinea nessun aspetto particolare, non sembra neppure proporne qualcuno in particolare, sembra piuttosto volerne evitare i più scontati e più sfruttati, quelli espressionisti dei rami contorti che alludono alla durezza della vita, quelli che giocano sul rapporto tra singolo albero e l’insieme del bosco per decantare la solitudine oppure, al contrario, la buona integrazione, quelli compiaciuti della decoratività che rimanda alla gioia di vivere; così come evita gli aspetti spaziali basati sia sul tutto pieno delle chiome che occupano l’intero spazio dell’immagine, sia sul rapporto dei vuoti e i pieni e il loro rovesciamento, sia sull’eleganza orientaleggiante dell’asimmetria. Credo sia da questo sforzo invisibile di sottrazione che nasce proprio il fascino e il senso di questa serie di De Luca: nessun compiacimento, nessuna enfasi, quasi sparire, rendersi irreperibili, eppure presenti. Questo è tanto più interessante in De Luca in quanto nelle fotografie precedenti l’autrice si metteva invece sempre in primo piano: il suo corpo, il suo volto, o il fiore al centro come un “io”, come la figura dell’identificazione e dell’enunciazione. Lavorava allora anche sulla stampa in negativo, ed era per drammatizzare, per confondere, per dare espressività, per rovesciare appunto: io e inconscio, volto e maschera, corpo e spirito, interno ed esterno…

 

Eppure, si noti, anche in quei casi l’espressività di De Luca era tutta fisica, non psicologica o spirituale; e fisica ma non nel senso di carnale, corporea sì ma non del corpo come materia, bensì del fisico e del corpo come sensorialità, come ciò che appare attraverso e solo grazie ai sensi, all’incontro con essi. Una fisicità più fenomenologica che materialista, una strana sostanza inscindibile dalla sua manifestazione sensoriale. Non è questa la sostanza stessa della fotografia?

 

In quei corpi e quelle figure c’era insomma, ma a un altro livello, la stessa dinamica che c’è, ma con mezzi rovesciati, in questi alberi. Per questo, ed è l’ultima sensazione evidente che vogliamo commentare in queste immagini di De Luca, anche in questi alberi, come del resto anche nei suoi cieli e in altre serie di sue opere, ritroviamo spesso, se non sempre, il rimando – discreto, dicevamo, non enfatizzato, non esibito come centrale, ma intriso, connaturato, ben amalgamato, come tutto qui, insistiamo – al corpo, cioè a quel “corpo” che dicevamo. Così, quando vediamo curve, gambe, spine dorsali o altre parti del corpo tra le silhouette degli alberi, il rimando è tanto innegabile quanto inafferrabile, quasi trasparisse, si vedesse attraverso, più che essere a tutti gli effetti evidente, attraverso proprio il fondo argento, proprio come le figure stesse degli alberi “attraverso” la polvere di nero sul supporto.

 

Alla fine, è evidente, l’argento del supporto qui è tutto: se si ricorda che la fotografia è un’impronta della luce su un pellicola ai sali d’argento, appunto – e così granulari, polverulenti, come De Luca ci mostra stampando in grande dimensioni –, allora, più che di mostrare la materialità dell’immagine, qui si tratta di restituire l’immagine alla sua materialità, letteralmente al suo fondo materiale, senza che siano una cosa ma in un equilibro alquanto particolare, insomma, diciamolo, tutto fotografico. Il “paesaggio”, la “natura”, il “corpo” sono questo: fotografia, cioè paesaggio, natura e corpo della fotografia. “Fuori di me” è il giusto titolo già usato in altra occasione da De Luca di questo modo di intendere, allusivo al fatto che fuori di sé si ritrova sempre sé stessi, ma non come puro rispecchiamento, puro ritorno, ma come minimo movimento di follia, quel tanto che basta, non solo perché è permesso, in arte, ma anche perché deve restare piccolo, insituabile, appena percettibile, confuso-infuso nella percezione stessa, come una stravaganza, una mania, un’eccentricità, argento vivo, come si usa dire.

Erminia De Luca, Cantici – di Enrico Gusella

“Ciò che effettivamente si nasconde nel principio della ‘espressione’, potrebbe
essere piuttosto un rapporto d’apparizione, e cioè un rapporto di
specie molto particolare. Ma non c’è bisogno che sia apparizione di una
idea o della vita o di un senso. Piuttosto, la natura impropria dell’oggetto
bello andrà ricercata nel modo stesso del suo apparire”.

 

Nicolai Hartmann

Della natura da riscoprire, di un territorio da ricercare.

Magari in un ritorno al futuro, nel tempo e nelle tecniche, in una tradizione dalla quale attingere gli strumenti di una conoscenza, i nobili elementi di una scoperta: quella fotografica. Così, i “Cantici” fotografici di Erminia De Luca, raccolti attraverso una forma linguistica che guarda all’integrità di una natura, alla capacità percettiva di recuperarne le fonti ma, anche, il carattere, la forma e la forza quale rappresentazione di uno sguardo rivolto alle origini fotografiche, come necessità per ricostruire un percorso e una storia, o la genuinità dell’immagine, lontana dall’artificio. Mira lungo questa direzione l’opera fotografica di Erminia de luca, il “canto” suo o la parte di un sé, per una cognizione dell’oggetto, una sensibilità tutta rivolta a un nuovo sentimento.

 

È lo “scopo di natura” o “Naturzweck”, il fondamento di questa ricerca, non solo come conoscenza dell’unità sistematica della forma ma, anche, quale motivo di una spiritualità a cui collegarsi, un’indagine interiore tutta tesa a ritrovare identità altre, possibilità di vivibilità diverse. Delle dieci fotografie di grande formato, che prendono origine da stampe in carta d’argento, presenti in mostra, ben sette sono state scattate a Milano, quasi ad affermare il bisogno vitale di un’indagine che muove alla ricerca di un paesaggio incontaminato, dentro il quale ritrovare, invece, un proprio sentimento, un’idea forte legata a luoghi e tradizioni, come in un racconto d’altri tempi.

 

E la visione, meglio ancora la stampa in argento, tecnica fondamentale nella produzione d’origine della de luca, riprende, guarda caso, un concetto legato alla rappresentazione di una certa natura, che proprio ai primordi della fotografia trovò feconda espressione e rappresentazione. La ricerca di una luce propria, in una città come Milano, diventa allora anche il pretesto per scandagliare i luoghi e le forme, per ritrovare analogie e similitudini, presenze e assenze: l’assenza di luce ad esempio, o di una luce opaca, o peggio ancora, l’assenza di un’alba, di un tramonto, bisogni invece fondamentali a un istinto di vita, alla gioia di vivere, e a far quindi emergere un nuovo luogo interiore, quello, appunto, in cui ritrovare forme e configurazioni, per percepirle in quanto oggetti nitidi, essenziali, legati a un ambiente dentro il quale riconoscere bisogni identitari, percorsi personali, una storia e una presenza. Ed è proprio in un albero e negli alberi, nelle sue forme e nei suoi segni, che si caratterizza la poetica della De Luca. Con una luce lunare, argentea, senza orizzonte e senza confini, dove definire una nuova prospettiva visiva.

 

Erminia De Luca muove verso un ritorno all’antico, una tecnica, la stampa su carta d’argento, che vanta origini lontane. Georges Fabricius (1516-1571), del resto, aveva osservato e descritto in un suo testo del 1565 “De Rebus metallicis variae observationes, che materiali contenenti cloruro d’argento si alteravano se esposti alla luce e chiamò questa sostanza luna cornea; il medico Johann Heinrich Schulze (1687 – 1744) utilizzò per primo il nitrato d’argento e spiegò gli effetti che su di esso provoca la luce , (…), offrendo in Scotophorus pro Phosforo Inventus (Norimberga 1727) la prima descrizione di come ottenere delle immagini grazie all’azione della luce su carbonato d’argento” (i. zannier, Storia e tecnica della fotografia, roma – Bari, 2ª ediz., 1984, p.6)

 

Così per la fotografa pugliese il recupero di un metodo di stampa tanto antico quanto straordinario, assume un significato di particolare rilevanza, poiché diventa funzionale a uno stesso sentire, che è l’espressione di un certo modo di vedere e, quindi, di rappresentare una porzione di mondo e della circostante e, soprattutto in questo caso , penetrante realtà. Proprio sotto questa prospettiva si caratterizza la produzione fotografica di Erminia de luca e il suo rapporto speciale con la natura. E in quest’ottica le sue immagini, per alcuni versi, si ricollegano, in qualche modo, ai lavori di una grande fotografa americana del secolo scorso: Imogen Cunningham, nelle cui fotografie degli anni venti e trenta, come testimonia “Foglie” (1929, stampa alla gelatina –sale d’argento), si manifesta tutta la maestria tecnica e la singolare abilità di indagare il campo delle forme in maniera armoniosa e coinvolgente. alle stessa stregua i “Cantici” di Erminia de luca si spingono lungo questa direzione, nella necessità a scandagliare forme specifiche di un paesaggio o di ambienti lungo i quali riconoscersi, dentro cui ritrovare una soggettività in grado di superare lo stesso linguaggio fotografico per assumere l’eleganza di linee e stilemi che riprendono le tecniche dell’incisione, quale stilizzazione di un oggetto e delle forme arboree che ne costituiscono il paesaggio ideale e naturale nel quale ritrovare un’istanza sonora , il canto e un suono, rappresentato in un movimento, dettato ora dall’aria ora dal vento, e la cui posizione – sorta di postura – amplifica la stessa presenza dell’oggetto, e la rende elemento dinamico, forte e concreto, o un canto perfetto.

LA POETICA DELL’INCANTO – di Paola Barbara Sega

Il doppio carattere dello storico dell’arte è una delle poche costanti che non sono mutate fin dall’età moderna  ad oggi. Si tratta di una dinamica oscillante fra il polo assestato su una lettura a carattere prettamente filologico, strettamente legata ai legami col passato, ai contenuti e alle potenzialità e tipologie del mezzo nella creazione dell’opera: in questo caso dell’oggetto fotografico. Il versante opposto si occupa di evidenziare gli aspetti più generali, tipicamente “culturologici” dell’opera in oggetto.

Ad esempio – per quanto riguarda la fotografia – la mia attività di esegeta si è soprattutto rivolta alla mia personale esperienza di storica delle arti visive quali la pittura, la scultura, le arti decorative ecc. e quando mi sono occupata di operazioni artistiche che hanno travalicato il versante dei “generi” tradizionali come la videoarte, i videogames, la fotografia, i videoclips ecc. ho sempre usato come strumento di lettura le basi tradizionali dell’estetica contemporanea, che pur plaudendo al rinnovamento (come l’estetica tecnologica di Max Bense oppure quella del paesaggio – o environnement, coadiuvato sempre dal sigillo foto–grafico – che si avvale degli studi di Assunto oppure di Arnheim), si attesta su posizioni che oserei chiamare con un termine oggi non molto alla moda, “strutture classiche”.

Per questo nell’accostarmi all’opera di questa giovane fotografa pugliese, Erminia De Luca, il mio pensiero principale – dopo essere ovviamente stata colpita dall’intensità del suo lavoro – è stato quello di intessere analogie con il “mio” personale strato culturale, che probabilmente e, senza falsa umiltà, avrebbe potuto anche non coincidere con la sua esperienza. Tuttavia, di fronte al fatto che durante i colloqui che abbiamo avuto, Erminia ed io, abbiamo convenuto che esistono reciproche coincidenze di punti di vista sulle sue opere, ho deciso di raccontare il percorso di Erminia con dei parallelismi e delle analogie che appartengono all’”immaginario collettivo” e non certo alla cultura strettamente legata alla storia della fotografia oppure a quella protofeudale del suo paesino: quel San Giovanni Rotondo dove si frammischiano con singolari caratteristiche, operazioni assolutamente post-moderne, intrise di kitsch, di misticismo e mass–media; piuttosto considero il lavoro di De Luca significativamente legato alle correnti internazionali, alle poetiche d’avanguardia del XX secolo ed esse attraversano tutta la sua ancor giovane operazione.

Non è forse per caso che l’artista si sia allontanata dal suo luogo d’origine pur restandone sicuramente molto legata. Infatti vive a Milano che è la città italiana più internazionale e cosmopolita. Inoltre, dal punto di vista puramente tecnico, osa ed ha osato operazioni decisamente retrò, ovvero implosive usando pellicole in bianco e nero e molti sistemi ancora legati allo sviluppo tradizionale, pur sapendo avvalersi delle tecniche più avanzate, come la foto digitale, che tuttavia risulta magnificamente interpolata alle antiche operazioni di matrice chimica. I suoi fotogrammi sono di taglio medio, quindi i più semplici da manipolare e soprattutto il materiale tematico è lungi dall’essere imposto dalle nuove “autorità istituzionali” come avviene nella maggior parte dei giovani fotografi di oggi, laddove l’auctoritas del mithos è passato da una forma di eteronomia all’altra: al posto degli eroi ci sono le autostrade e i campi di calcio, oppure gli aeroporti, oppure il ritratto e l’autoritratto s’intride di horror del quotidiano: malattie, protuberanze, distorsioni e menomazioni pullulano nelle opere della giovane fotografia. Le cosiddette “storie vere”, scomparse dalla pittura, ricompaiono nella fotografia, nei DVD e nella videoarte. Noiosie messe a fuoco ad obbiettivo aperto mostrano i nuovi mostri sfocati: esseri butterati e sessi seccati si alternano ad Halls sterminate di alberghi tipo Shining, oppure  immagini di aeroporti che sembrano colpiti dallo sciopero dei passeggeri. Non si può tuttavia disconoscere che – almeno per quel che riguarda le personalità più interessanti dell’ultima generazione di fotografi famosi – che per altro è immediatamente precedente a quella di Erminia De Luca, si trovi un reciproco avvicinamento almeno sul piano dei contenuti a quella che comunemente – oggi – viene chiamata l’estetica del vuoto.

Del resto si sa che l’estetica del vuoto si richiama a quella dei Simbolisti laddove la conciliazione fra l’umano e il cosmico, fra la natura e le arti contiene l’impronta di un vuoto e di un”assenza” che è la matrice di perenne creatività.

 

Erminia De Luca ha cercato nel corso della sua ormai più che decennale attività alcuni temi o meglio vari spunti di materiali tematici che la portano a cercare un’identità smarrita: infatti nell’illustrare il suo “repertorio” spicca –  per prima – la serie d’immagini su LE ROSE DI FERRO, in seguito la serie di AUTORITRATTI (1996) e SETTE OPERE A MILANO (2002), compreso l’omaggio a Tina Modotti (2000) sono in perfetta sintonia con l’iperbolico simbolismo sintetico ed essenziale, ma visionario ed infinito comparabile alla grafica di Rodolphe Bresdin, artista magico e favoloso, ispiratore del misteriosi incantesimi di Odilon Redon.

 

LE ROSE DI FERRO sembrano toccate da un fatale destino, come se una fata malefica le avesse  costrette per sempre a rendere infinita, cupa e immortale la loro caduca freschezza. Infatti spesso la rosa venne presa come simbolo soprattutto dai grandi artisti artigiani del ferro del periodo dell’ Art Nouveau e penso al famoso Mazzuccottelli. L’artista si serviva di questa “immagine – simbolo”, non solo per adornare inferriate e balconi dei palazzi e dei villini protoborghesi, ma  le rose di ferro compaiono spesso raggruppate corredate di sottili steli oppure in grandi vasi nei nobili e austeri cenotafi costruiti a cavallo del secolo nei cimiteri di molte città. Le ROSE DI FERRO tuttavia, sono il segno più evidente della poetica dell’incanto della nostra artista, sono costruite con magica perizia, tanto da smentire la famosa frase di Susan Sontag secondo la quale “il pittore costruisce, il fotografo rivela”.

 

Le ROSE di De Luca non solo sono una rivelazione nel senso più westoniano del termine, cioè ci fanno partecipi di una percezione del fenomeno della de-contestualizzazione, ma sono “in realtà” de-contestualizzate anticipando quel flusso d’imprescindibile spirale fra finzione e realtà che iniziatasi appunto con la poetica dei Simbolisti culminerà con le forme dei ready-made, che non sono solo utilizzati dai cubisti,futuristi e dadaisti, che lanciarono come mezzo di suprema ambiguità artistica il trucco della decontestualizzazione dell’oggetto. E’ da sottolineare tuttavia che, a differenza delle foto alla Weston, molto contratte e cariche di realismo magico, appunto nei primi decenni del XX secolo, i Bragaglia, fotografi esponenti del futurismo s’interessavano al tema del “movimento”, raggiungendo paradossalmente un risultato percepito come un  raggelamento tipico di molta arte pittorica di quegli anni e sono queste le impressioni che più ci avvicinano alla seconda fase dell’arte di De Luca.

 

AUTORITRATTI, sono stati creati attorno al 1996. Qui De Luca si cimenta in una serie di autoritratti che indagano il tema “principe” nella storia dell’arte: quello del DOPPIO. L’altro da sé ha sempre affascinato il mondo dell’arte, dalla letteratura alla pittura ecc, si pensi ancora ad un grande simbolista come Gustave Moreau e alle sue tele sul tema di Narciso. Infatti a differenza di molti artisti direttamente precedenti alla De Luca che si avvalgono del tema del ritratto come “travestimento” oppure per trasformare il proprio volto in immagini di orrore ispirandosi per esempio, al romanzo nero, come ha fatto spesso la Sherman, Erminia De Luca indugia su una poetica del Narciso come specchio di Dioniso, persino la sua autoimmagine come donna pipistrello, non suscita orrore, ma un sentimento di impotenza di fronte ad una speranza giovanilmente e incontenibilmente tesa a trattenere in eterno la pluralità nel “tutto”, che è il nostro personale e purtroppo “finito” e destinato alla finitudine CORPO: torna alla mente la breve Satura di Montale “Si arraffa un qualche niente/ e si ripete/ che il tangibile è quanto basta./ Basterebbe un tangente/ se non fosse/ ch’è lì, a due passi guasto.” Agevolmente lo specchio di De Luca vuole scavalcare qualsiasi recinzione e dopo una fuggevole, ma molto simbolista, immagine dedicata alla Modotti, una Calla, che rammenta due versi di una poesia di Maeterlink: “…eleva verso il cristallo azzurro/ la sua mistica preghiera bianca”, si lancia in una breve serie di RITRATTI o AUTORITRATTI, dove il ductus foto–grafico diventa sempre più fluido e sfuggente per favorire il flusso della memoria e delle evocazioni. Allora abbiamo splendide immagini come La Statua, La Concubina, La Rondine che preludono un’apertura all’ALTRO; una adesione allo Specchio di Dioniso, un aprirsi alla vita. De Luca a questo punto si allontana dalle poetiche “A rebours”. Erminia non diventa un cesellatore d’immagini, un orafo prezioso e chiuso in un mondo dove domina l’estenuata eleganza e una inane solitudine.

 

Infatti FUORI DI ME, comprende la serie di: ALBERI (2003), CIELO (2004), RIZOMI (2004). L’omaggio alla Modotti, non era senza un significato, perché anche Erminia si apre al mondo, anche se non si risolve ad effigiare, come la sua ava, il mondo degli umili, sarebbe un vieto pre–testo per fare ideologia. Oggi – la nostra artista ha ben capito il carattere rizomatico della nostra cultura – che si espande in profondità che germoglia sotterranea e che esplode in superficie solo per arrivare ai Confini della terra, in quel cielo informe e abbrunato dalla polluzione, sotto il quale – in silenzio – ma non in solitudine, Erminia, come tanti altri esseri umani spesso misconosciuti, conducono le loro battaglie.

 

AI CONFINI DELLA TERRA potrebbe, all’apparenza, avere analogie stilistiche con l’arte e la fotografia informale degli anni ’50, di cui la sottoscritta è stata una delle prime esegete, in occasione della mostra sull’ Informale in Italia del 1982, a Bologna. Eppure, troppa acqua è passata attraverso i “ponti” dell’arte, in questo mezzo secolo.  Lontano dai tormenti degli artisti dell’informale, la giovane artista punta piuttosto su una visione cosmica del “meraviglioso”, come in tutto il suo lavoro, anche qui a De Luca interessa l’identità e l’integrità del soggetto, non l’integrità della forma.

Le foto della breve serie: Ai confini della terra potrebbero essere “GRAFIE” riprese da foto scientifiche del cosmo, possono essere tracce di antiche Galassie affiorate dal VUOTO e dal NULLA. Infine, i RIZOMI mettono in scena strati iconografici difficilmente accessibili, sono una sorta di trappola, di ingorgo, in cui si dibatte ciascuno di noi. I sottili filamenti che generano poderosi e nodosi apparati lignei sono un analogo della nostra anima, cui basta qualche sottile traccia di realtà per concepire l’essenza, che è sempre un vuoto, ma che genera frondosi boschi e prati di memorie, come scriveva Cesare Vivaldi: “Finita l’apparecchiatura a mano/ con gli stimolanti, i veleni/ rimane il prato come è sempre stato.”