cielo

Ai confini della terra
Cammino il tempo,
lo spazio,
il centro,
fino ai bordi del vuoto.

TESTO CRITICO - VENATURE DELLA TRASPARENZA, SU ALCUNE FOTOGRAFIE DI ERMINIA DE LUCA – DI ANTONIO PRETE

I cieli sono stati sempre una sfida per il linguaggio della poesia e della pittura. Perché allo stesso tempo essi appartengono al paesaggio che sovrastano ma sono, proprio perché sovrastanti, appunto al di sopra, non solo visivamente ma per così dire metafisicamente. Si illuminano della luce del giorno o della luce lunare oppure si riempiono di stelle nelle notti illuni, e tuttavia portano con sé l’idea di un’ulteriore inafferrabile profondità, nientemeno connessa con quello sfondamento del visibile e del conoscibile che diciamo infinito. Tempo e spazio attraversati fino alla loro estrema dilatazione, fino alla loro stessa dissoluzione. Sono, i cieli,  l’oltre dell’orizzonte, l’al di là delle nuvole, l’impossibile della visiva percezione. Ma prendono forma e colore, si ricompongono con i profili dei monti, si fanno di pietra sopra i deserti, di platino nelle albe, di fuoco nei tramonti, si lasciano afferrare dai rami degli alberi, piombano sui tetti e si specchiano nelle acque, si lasciano attraversare da uccelli, da nubi, da aerei.  Vivono nella luce e nell’ombra del tempo che scorre, del nostro tempo, ma sono figura di un tempo altro, oltretempo immobile e intransitabile. E’ la loro trasparenza che è la  vera sfida di ogni rappresentazione. Le fotografie di Erminia De Luca  accettano questa sfida.  Perché cercano di afferrare, in quella trasparenza, le venature, le commistioni con la materia che abita i cieli – materia d’aria e di nuvole- e attraverso questo farsi e disfarsi di ombre e di luci, di oscuro e di luminoso, le immagini impresse con l’inchiostro cercano di mostrare una sostanza che avvicina i cieli ai corpi, a tutti i corpi, anche a quelli umani.  Fotografia e radiografia, superficie e nascondimento si avvicinano. E le immagini allora  possono fluttuare verso quel regno delle cose imprendibili e fuggitive di cui il cielo è  figura suprema, col suo tempo accordato al movimento delle stelle.

 

Gli alberi dialogano, si diceva, col cielo. C’è un dialogo tra il cielo e l’albero, un dialogo fatto di silenzio e  di vento, di luce e d’ombra, d’aria e d’acqua. Un  dialogo,  dunque, che attiene a principi della materia e alla natura stessa.  “Gli alberi meditano”, diceva Valéry, il poeta filosofo che  ha anche scritto un Dialogo degli alberi. La forma della chioma è tempo fatto forma, spazio, figura, tempo che ha nella radice il suo nascosto fondamento, per così dire il suo pensiero e progetto.  Se la radice sogna la forma, la forma pensa la radice, ha d’essa memoria e percezione, ne è la geometrica e insieme labirintica proiezione, la figurazione esposta al vento, alla pioggia. La rizomatica composizione fotografica di Erminia De Luca sorprende il tempo di  quel  divenire forma, fissa quel tempo nel chiaro del visibile e nell’oscuro dell’invisibile, nel luminoso dell’apparire e nel tenebroso del nascondersi –i due movimenti che sono ritmo proprio della physis–  ed espone quel tempo all’occhio dello spettatore che in quel farsi di figura e di forma trasferisce le proprie immagini : nelle radici che si divincolano, cercano, separano e uniscono, ciascuno può trasferire le forme del proprio sentire,  del proprio immaginare la relazione con sé e con il mondo.

 

Se la filosofia del Novecento, in alcune sue declinazioni, ha  opposto il pensiero rizomatico  al pensiero lineare e progressivo, la ramificazione profonda del desiderio all’ordine compatto della legge, qui, in queste immagini di rizomi  si mostra, con la chiarezza dell’istante che accoglie il divenire, raggelandolo e sfidandolo, l’aspetto per così dire ctonio, materno e terrestre del desiderio. Non si mostra la simbolizzazione della radice, ma la sua quasi spasmodica ricerca di forma,  di campitura spaziale, di figurazione che corteggia il nodo e l’arabesco, pensa il tronco sottraendosi alla sua eleganza, pensa la ramificazione che sostiene la chioma dell’albero rivolgendola verso il basso e spogliandola di fogliame, pensa l’intrico dell’arbusto svolgendolo in filamenti che cercano l’humus, la zolla, la pietra. Il cielo della radice è la terra, il suo caldo ventre.  Le forme  qui raccontano la somiglianza di ogni cosa al nascosto di un corpo : la venatura è quel che unisce i corpi animali e arborei, il radicamento è quel che definisce l’appartenenza alla terra, l’abitare la terra.  Ed espongono anche, queste fotografie, una ricerca del grigio, delle sue variazioni e tonalità, del suo ritmo, e allo stesso tempo, una ricerca dell’ impossibile fissazione del grigio: perché nel grigio è forte di volta in volta la relazione col nero e col bianco, e dunque il rinvio immediato alla luce e all’ombra, fondamento, poi,  di quel che unisce il vedere e l’immaginare. Il dialogo tra il bianco e il nero, sostanza della fotografia, della sua storia, trova qui, nella rappresentazione del rapporto tra il vegetale e la terra, tra l’arboreo e la terra, una sua esplicita via dichiarativa : il bianco è la forma, il nero è l’informe, ma allo stesso tempo il bianco è la costruzione, il nero il fondamento nascosto. E, potremmo dire, ripensando al rapporto tra l’albero e il cielo, il bianco è il corpo osservato nel suo radicamento, il nero è il cielo rovesciato.

 

Il celeste e l’arboreo, il nubiloso e il terrestre, l’alto e il basso, la luce e l’oscurità :

di questa compresenza è fatto il tempo che ogni arte tenta di accogliere e figurare.  E grazie a questa compresenza  -corrispondente forse a quell’ “eterno” e “transitorio” che Baudelaire vedeva come essenza propria della bellezza nella “modernità”- l’arte può sospingersi su quella soglia dove interrogare il tempo, le sue forme, le sue figure, significa sporgersi sul balcone dove si possono osservare non l’infinito né l’eterno, di per sé infigurabili, indicibili, inabitabili, ma le loro umane provvisorie metafore, le loro fuggitive terrestri figurazioni.