Una primavera senza colore,
dove l’occhio si fa orecchio.
Una pausa d’argento. Silenzio.
“Non volevo il bianco”, mi dice Erminia De Luca, rispondendo alla mia domanda sul perché ha stampato su fondo argento. È un’affermazione impegnativa per un fotografo, perché rinunciare al bianco vuol dire avere grossi problemi con la luce, niente meno.
Ma le conseguenze di questa scelta drastica sono alquanto importanti, visivamente prima di tutto, ma non solo, come suggerisce l’autrice anche attraverso i titoli delle sue opere.
Voleva invece continuare a usare il metallo, ma diversamente da come aveva fatto nelle serie precedenti. In quelle il metallo era intorno all’immagine, in forma di cornici ingombranti, pesanti, che servivano a dare corpo alle immagini. D’altro canto là il bianco era abbondante, soprattutto nello sfondo da cui le immagini sembrano allora uscire come facendosi strada, emergendo dalla luce. Qui invece il metallo diventa il supporto, sostituisce appunto il fondo-sfondo e tutte le parti bianche, ma è un metallo meno fisicamente presente, non pesante, leggero anzi, flessibile, una lastra, una superficie risonante.
Quello che ne deriva sono i due effetti principali di questa strana serie di fotografie: il rimando al suono ribadito dai titoli, che arricchisce sensorialmente (piuttosto che fisicamente, dunque) il visivo, e lo strano effetto per cui le immagini sembrano in qualche modo stampate in negativo, mentre in realtà non lo sono. I due effetti sono in realtà legati tra di loro, perché concorrono entrambi a offrirci immagini che hanno uno strano rapporto con la superficie, ne sembrano una “risonanza”, appunto, un’emanazione, una vibrazione, come se nascessero dal movimento della polvere scura depositata sulla lastra e poi fissata.
Così potremmo allora dire che questa volta è il fondo a emergere dalle figure, a salire in primo piano, grazie alla sua piattezza, alla sua opacità e al suo colore inconsueto. È per questo che abbiamo talvolta la sensazione che le immagini siano in negativo, perché non riusciamo a situare bene il chiaro e lo scuro, essendo stato eliminato il bianco, e con esso la sfumatura, il rilievo. L’argento è sia il cielo di fondo, sia la terra in primo piano, sia ancora ciò che ne traspare tra le foglie e un po’ ovunque.
È infine l’effetto dovuto alla scelta doppiamente giusta della figura dell’albero, degli alberi, figura classica, perfetto equilibrio grafico e visivo, ma anche di metafora e di percezione, chiara e armoniosa, bella, viene da dire, in sé, commovente ma senza sentimentalismi, paesaggio e figura antropomorfa insieme, natura e cultura inseparabili, ormai, per noi, capace per questo di tenere tutto insieme. Metafora tanto potente e“naturale” che Platone non esitò a dire che l’uomo è un albero al contrario e che in noi scatta automaticamente l’identificazione di fronte a uno qualsiasi. Figura visivamente così efficace che sia il modernismo cultore della bidimensionalità che il postmodernismo cultore del rizoma la utilizzano e la sua ricchezza di possibilità è lungi dall’essere mai esaurita. Erminia De Luca, da parte sua, non sottolinea nessun aspetto particolare, non sembra neppure proporne qualcuno in particolare, sembra piuttosto volerne evitare i più scontati e più sfruttati, quelli espressionisti dei rami contorti che alludono alla durezza della vita, quelli che giocano sul rapporto tra singolo albero e l’insieme del bosco per decantare la solitudine oppure, al contrario, la buona integrazione, quelli compiaciuti della decoratività che rimanda alla gioia di vivere; così come evita gli aspetti spaziali basati sia sul tutto pieno delle chiome che occupano l’intero spazio dell’immagine, sia sul rapporto dei vuoti e i pieni e il loro rovesciamento, sia sull’eleganza orientaleggiante dell’asimmetria. Credo sia da questo sforzo invisibile di sottrazione che nasce proprio il fascino e il senso di questa serie di De Luca: nessun compiacimento, nessuna enfasi, quasi sparire, rendersi irreperibili, eppure presenti. Questo è tanto più interessante in De Luca in quanto nelle fotografie precedenti l’autrice si metteva invece sempre in primo piano: il suo corpo, il suo volto, o il fiore al centro come un “io”, come la figura dell’identificazione e dell’enunciazione. Lavorava allora anche sulla stampa in negativo, ed era per drammatizzare, per confondere, per dare espressività, per rovesciare appunto: io e inconscio, volto e maschera, corpo e spirito, interno ed esterno…
Eppure, si noti, anche in quei casi l’espressività di De Luca era tutta fisica, non psicologica o spirituale; e fisica ma non nel senso di carnale, corporea sì ma non del corpo come materia, bensì del fisico e del corpo come sensorialità, come ciò che appare attraverso e solo grazie ai sensi, all’incontro con essi. Una fisicità più fenomenologica che materialista, una strana sostanza inscindibile dalla sua manifestazione sensoriale. Non è questa la sostanza stessa della fotografia?
In quei corpi e quelle figure c’era insomma, ma a un altro livello, la stessa dinamica che c’è, ma con mezzi rovesciati, in questi alberi. Per questo, ed è l’ultima sensazione evidente che vogliamo commentare in queste immagini di De Luca, anche in questi alberi, come del resto anche nei suoi cieli e in altre serie di sue opere, ritroviamo spesso, se non sempre, il rimando – discreto, dicevamo, non enfatizzato, non esibito come centrale, ma intriso, connaturato, ben amalgamato, come tutto qui, insistiamo – al corpo, cioè a quel “corpo” che dicevamo. Così, quando vediamo curve, gambe, spine dorsali o altre parti del corpo tra le silhouette degli alberi, il rimando è tanto innegabile quanto inafferrabile, quasi trasparisse, si vedesse attraverso, più che essere a tutti gli effetti evidente, attraverso proprio il fondo argento, proprio come le figure stesse degli alberi “attraverso” la polvere di nero sul supporto.
Alla fine, è evidente, l’argento del supporto qui è tutto: se si ricorda che la fotografia è un’impronta della luce su un pellicola ai sali d’argento, appunto – e così granulari, polverulenti, come De Luca ci mostra stampando in grande dimensioni –, allora, più che di mostrare la materialità dell’immagine, qui si tratta di restituire l’immagine alla sua materialità, letteralmente al suo fondo materiale, senza che siano una cosa ma in un equilibro alquanto particolare, insomma, diciamolo, tutto fotografico. Il “paesaggio”, la “natura”, il “corpo” sono questo: fotografia, cioè paesaggio, natura e corpo della fotografia. “Fuori di me” è il giusto titolo già usato in altra occasione da De Luca di questo modo di intendere, allusivo al fatto che fuori di sé si ritrova sempre sé stessi, ma non come puro rispecchiamento, puro ritorno, ma come minimo movimento di follia, quel tanto che basta, non solo perché è permesso, in arte, ma anche perché deve restare piccolo, insituabile, appena percettibile, confuso-infuso nella percezione stessa, come una stravaganza, una mania, un’eccentricità, argento vivo, come si usa dire.
“Ciò che effettivamente si nasconde nel principio della ‘espressione’, potrebbe
essere piuttosto un rapporto d’apparizione, e cioè un rapporto di
specie molto particolare. Ma non c’è bisogno che sia apparizione di una
idea o della vita o di un senso. Piuttosto, la natura impropria dell’oggetto
bello andrà ricercata nel modo stesso del suo apparire”.
Nicolai Hartmann
Della natura da riscoprire, di un territorio da ricercare.
Magari in un ritorno al futuro, nel tempo e nelle tecniche, in una tradizione dalla quale attingere gli strumenti di una conoscenza, i nobili elementi di una scoperta: quella fotografica. Così, i “Cantici” fotografici di Erminia De Luca, raccolti attraverso una forma linguistica che guarda all’integrità di una natura, alla capacità percettiva di recuperarne le fonti ma, anche, il carattere, la forma e la forza quale rappresentazione di uno sguardo rivolto alle origini fotografiche, come necessità per ricostruire un percorso e una storia, o la genuinità dell’immagine, lontana dall’artificio. Mira lungo questa direzione l’opera fotografica di Erminia de luca, il “canto” suo o la parte di un sé, per una cognizione dell’oggetto, una sensibilità tutta rivolta a un nuovo sentimento.
È lo “scopo di natura” o “Naturzweck”, il fondamento di questa ricerca, non solo come conoscenza dell’unità sistematica della forma ma, anche, quale motivo di una spiritualità a cui collegarsi, un’indagine interiore tutta tesa a ritrovare identità altre, possibilità di vivibilità diverse. Delle dieci fotografie di grande formato, che prendono origine da stampe in carta d’argento, presenti in mostra, ben sette sono state scattate a Milano, quasi ad affermare il bisogno vitale di un’indagine che muove alla ricerca di un paesaggio incontaminato, dentro il quale ritrovare, invece, un proprio sentimento, un’idea forte legata a luoghi e tradizioni, come in un racconto d’altri tempi.
E la visione, meglio ancora la stampa in argento, tecnica fondamentale nella produzione d’origine della de luca, riprende, guarda caso, un concetto legato alla rappresentazione di una certa natura, che proprio ai primordi della fotografia trovò feconda espressione e rappresentazione. La ricerca di una luce propria, in una città come Milano, diventa allora anche il pretesto per scandagliare i luoghi e le forme, per ritrovare analogie e similitudini, presenze e assenze: l’assenza di luce ad esempio, o di una luce opaca, o peggio ancora, l’assenza di un’alba, di un tramonto, bisogni invece fondamentali a un istinto di vita, alla gioia di vivere, e a far quindi emergere un nuovo luogo interiore, quello, appunto, in cui ritrovare forme e configurazioni, per percepirle in quanto oggetti nitidi, essenziali, legati a un ambiente dentro il quale riconoscere bisogni identitari, percorsi personali, una storia e una presenza. Ed è proprio in un albero e negli alberi, nelle sue forme e nei suoi segni, che si caratterizza la poetica della De Luca. Con una luce lunare, argentea, senza orizzonte e senza confini, dove definire una nuova prospettiva visiva.
Erminia De Luca muove verso un ritorno all’antico, una tecnica, la stampa su carta d’argento, che vanta origini lontane. Georges Fabricius (1516-1571), del resto, aveva osservato e descritto in un suo testo del 1565 “De Rebus metallicis variae observationes, che materiali contenenti cloruro d’argento si alteravano se esposti alla luce e chiamò questa sostanza luna cornea; il medico Johann Heinrich Schulze (1687 – 1744) utilizzò per primo il nitrato d’argento e spiegò gli effetti che su di esso provoca la luce , (…), offrendo in Scotophorus pro Phosforo Inventus (Norimberga 1727) la prima descrizione di come ottenere delle immagini grazie all’azione della luce su carbonato d’argento” (i. zannier, Storia e tecnica della fotografia, roma – Bari, 2ª ediz., 1984, p.6)
Così per la fotografa pugliese il recupero di un metodo di stampa tanto antico quanto straordinario, assume un significato di particolare rilevanza, poiché diventa funzionale a uno stesso sentire, che è l’espressione di un certo modo di vedere e, quindi, di rappresentare una porzione di mondo e della circostante e, soprattutto in questo caso , penetrante realtà. Proprio sotto questa prospettiva si caratterizza la produzione fotografica di Erminia de luca e il suo rapporto speciale con la natura. E in quest’ottica le sue immagini, per alcuni versi, si ricollegano, in qualche modo, ai lavori di una grande fotografa americana del secolo scorso: Imogen Cunningham, nelle cui fotografie degli anni venti e trenta, come testimonia “Foglie” (1929, stampa alla gelatina –sale d’argento), si manifesta tutta la maestria tecnica e la singolare abilità di indagare il campo delle forme in maniera armoniosa e coinvolgente. alle stessa stregua i “Cantici” di Erminia de luca si spingono lungo questa direzione, nella necessità a scandagliare forme specifiche di un paesaggio o di ambienti lungo i quali riconoscersi, dentro cui ritrovare una soggettività in grado di superare lo stesso linguaggio fotografico per assumere l’eleganza di linee e stilemi che riprendono le tecniche dell’incisione, quale stilizzazione di un oggetto e delle forme arboree che ne costituiscono il paesaggio ideale e naturale nel quale ritrovare un’istanza sonora , il canto e un suono, rappresentato in un movimento, dettato ora dall’aria ora dal vento, e la cui posizione – sorta di postura – amplifica la stessa presenza dell’oggetto, e la rende elemento dinamico, forte e concreto, o un canto perfetto.